Stefano
Benni & Claudio
Ho conosciuto Claudio Lolli quando la sua
canzone «Piazza, bella piazza» era la sigla del notiziario di Radio Città,
una delle radio «storiche» del movimento bolognese. C'erano cinque milioni di
debiti da pagare entro una settimana, o la radio avrebbe chiuso. Chiedemmo il
sostegno di un concerto gratis a vari artisti, bolognesi e no. Si dileguarono
tutti con le scuse più varie: ce ne fu uno che disse che per lui «ci volevano
trecento persone di servizio d'ordine». Adesso si accontenterebbe di trecento
spettatori.
Telefonammo a Lolli e lui disse «va bene» - «quando puoi?» - «quando
volete voi». Due giorni dopo ci fu il concerto, riuscitissimo, e la radio fu
salva. Per Claudio era tutto così naturale che era sinceramente stupito mentre
tutti lo ringraziavano. Per questa sua serietà, e perché viveva più o meno
come componeva canzoni, Lolli fu etichettato come «cantautore politico»: da
noi perché gli volevamo bene e dagli altri perché gli volevano male.
È passato del tempo.
Alcuni cantautori italiani sono diventati così intimisti
da sembrare di pelouche. Altri sono diventati patrioti rampanti, filoitalici,
filomilitari, filointerventisti, hanno scoperto tutte le «politiche» possibili
pur di restare a galla, continuando però a dire che non si occupavano di
politica. È passato del tempo anche per Lolli, ed è cambiato anche lui, anche
se le idee fondamentali della sua musica sono immutate. Buoni testi «complessi»
e inusuali (prima di questo disco Lolli ha scritto un libro) e buona musica per
raccontarli (Lolli usava già le tastiere e i sax in modo raffinato quando una
certa iconografia della sinistra voleva la musica «vera» suonata con sola
chitarra, meglio se mancante di una o più corde).
Una rockstar del passato, Henry Beule, in arte Stendhal, ha scritto che «la
politica nell'immaginazione è come un colpo di pistola durante un concerto»
(non aveva mai visto un concerto dei Kiss). Stendhal barava: i suoi libri
parlavano della società del suo tempo assai più «politicamente» di tanti
altri. Perciò se per «politica» intendiamo politica discografica, politica
delle tendenze, politica della caricatura parlamentare, politica festivaliera,
Lolli è un cantautore disimpegnato. Se per politica intendiamo semplice
attenzione a ciò che succede intorno, senza filtri e astuzie, Lolli è uno dei
più (dei pochi) politici cantautori italiani. Una volta parlava delle piazze,
di incubi vietnamiti, di dubbi a venire, dei ragazzi del '70, di mari tropicali.
Ora parla del suo lavoro di insegnante, dei ragazzi dell'98, del suo «sognare
Reagan», dei dubbi passati e dell'Adriatico.
Il sessantotto, il settantasette e
qualsiasi anno vi diverta commemorare è forse deludente come fucina di
trasformazioni universali. Ma possiamo vederlo anche più semplicemente come
l'anno, gli anni in cui moltissima gente decise di vivere a suo modo, da soli o
con gli altri. E ci è riuscita fino in fondo.
Lolli è uno di questi. Per
questo è stato, e rimane, un cantautore assai particolare. E non per snobismo o
per contorsioni ideologiche. Come dice un dialogo di «Pierrot amico mio» di Queneau:
- Voi non sembrate come quelli -
- Non me ne fate un complimento. Non lo faccio mica apposta - |